vincenzo bonaventura |
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«Drogo però non lo sapeva, non sospettava che la partenza gli sarebbe costata fatica né che la vita della Fortezza inghiottisse i giorni uno dopo l’altro, tutti simili, con velocità vertiginosa. Ieri e l’altro ieri erano eguali, egli non avrebbe più saputo distinguerli; un fatto di tre giorni prima o di venti finiva per sembrargli ugualmente lontano. Così si svolgeva alla sua insaputa la fuga del tempo». Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari
Il maggiore Giovanni Drago (o colonnello? a Milano ero diventato colonnello, a Messina non sapeva bene che cos’ero; o meglio, maggiore sicuramente, ma forse ero anche diventato colonnello… beh, certamente il colonnello lo avevo fatto… ma non è questo il momento di tirar fuori un antico dubbio…) guardava da lontano. Il dolore lo prendeva tutto e ancora un altro dubbio lo assaliva insieme con le fitte: prevaleva il dolore fisico o quello, straripante, dell’anima? Possibile? Davanti a quella devastazione, lui, ormai pronto (il mio corpo è caldo o freddo?, un altro dubbio; basta!) a cadere fra le braccia della morte per cause legate solo alla sua vecchiaia mentre, davanti a lui, lontane, anche le vite più giovani erano inghiottite con atroce indifferenza dalla natura (Natura o natura, maiuscola o minuscola? ancora!), sembrava continuare a giocare con i sofismi (certo, erano stati come un farmaco omeopatico – curare il male con lo stesso male - per far scorrere le giornate fatte di nulla e di inutili attese). Forse era colpa di quella cappa di scirocco, tante volte mal sopportata, fonte di infiniti mal di testa, che pareva aggrovigliare le idee e farne più del solito carne da macello. I suoi pensieri finivano a pezzi come quella gente che si dibatteva – finché poteva – mentre la terra (Terra o terra? ma non era madre? perché era diventata matrigna? o semplicemente non le importava nulla di nessuno?) si apriva a squartare e inghiottire, a devastare e a cancellare, a punire a casaccio (o con un ordine preciso?) quegli uomini che lui, Drago, per una vita aveva pensato di dover difendere dal nemico. Ora, invece, assisteva impotente, steso su una barella nella coperta della nave traghetto che, unica di tante che ce n’erano una volta, era rimasta a congiungere stancamente la Sicilia e il Continente. Lui, che aveva passato la vita senza viverla (ma non è vero!; però mi è sempre piaciuto fare la vittima, anche di me stesso; devo pur concedere qualcosa al fatto di essere nato a Messina!), nell’illusione che prima o poi gli sarebbe toccato di difendere i suoi concittadini (concittadini? e che cosa ho in comune con loro? da dove sono stato mandato a nascere a Messina? da un’altra galassia? da un’altra vita? è stato un ritorno? chissà, sono già nato e morto altre volte… magari con risultati migliori, con più soddisfazioni; anche se le granite… ma davvero nel momento dell’apocalisse di questo pezzo di mondo si può pensare alle granite?), adesso poteva soltanto guardare, mentre era in navigazione su un mare placido, per una volta indifferente allo scirocco così come alla distruzione che lambiva con onde dolci (carezze? no, no, era proprio indifferenza!).
Quando era cominciata quella giornata, Drago era ancora nell’accampamento sul viale Boccetta, uno dei tanti viali sui “torrenti sepolti” - così li definiva - di Messina. Stava lì nella sua notte a occhi aperti a rimuginare le solite cose. La nuova fortezza Boccetta, sempre in costruzione da quando lui vi era stato destinato, era stata finalmente terminata, almeno così sembrava da fuori (ma dentro c’era vita? ce ne sarebbe mai stata?). La chiamavano Palazzo della Cultura (chissà perché, poi; la cultura di Messina non era da sempre in giro per il mondo? certo non stava lì a farsi rinchiudere tra quattro mura… o in una strisciolina di terra ricavata tra la montagna e il mare? o in un museo mai terminato e mai inaugurato? Antonello, Juvarra genî sì ma muovendosi in Europa), aveva un che di imbalsamato. Quindi, a pensarci bene, con gli anni si sarebbe conservata bene. Ma sarebbe mai vissuta? Stava lì e sembrava non appartenere a nessuno. Una costruzione estranea al proprio suolo. Chiusa e vuota (chiusa di mente e vuota di pensieri?, no, chiusa con le porte sbarrate e vuota di uomini e cose… anche se…), si mimetizzava perfino, specchiando la chiesa dell’Immacolata quasi a conquistarne colori e forme, per farsi altro da sé. Chissà se la guarnigione vi sarebbe mai entrata, forse sarebbero arrivati prima i nemici. Pur se anche loro, i nemici, erano sempre rimasti un concetto astratto, un indefinito futuro – intinto in un passato di greci, cartaginesi, saraceni, normanni, spagnoli, francesi, piemontesi e tanto altro ancora - destinato a non diventare mai presente. Una città che si bombardava da sola, da quella fortezza a forma di stella, messa lì sulla falce, quasi che si dovessero controllare due centri diversi tra di loro, mentre insieme erano l’unica faccia di un percorso – storico economico sociale culturale – solo in discesa. Cose da merli e malvizzi! Povera Messina, città senza identità, svilita, svenduta tra rivolte perdute, pestilenze, terremoti e guerre; da mitico luogo di Ulisse o del raduno vittorioso per la flotta di Lepanto a misero bersaglio del tiro a segno degli aerei alleati… (che senso ha la storia? i messinesi prima di essere liberati erano stati distrutti… sì, sì, ci sono tanti casi sparsi per il mondo, simili e peggiori, ma qui i bombardamenti erano stati davvero un di più per una città così martoriata… ecco il solito vittimismo dello stretto, non è così che se ne può uscire…). E la guerra non era stato ancora il momento peggiore, quello sarebbe venuto dopo, mentre Drago se ne stava accampato prima sulle rive del torrente Boccetta, poi (il progresso così liscio e asfaltato…) sul nuovo viale Boccetta: l’anonimato di una progressiva ignavia, una paralisi lenta e inesorabile come un’inarrestabile sclerosi multipla che rapprendeva anima e corpo della città; cresceva la patina grigia (la lupa dello stretto?) che la nascondeva quasi al resto della Sicilia e dell’Italia. Città di passaggio, si diceva, giusto un panino (dai, anche un arancino, almeno questo), un giro in nave traghetto e via verso le vere mete di chi viaggia, a sud, a nord, a ovest, che ci frega di Messina? (potrebbe essere solo un ponte; ecco, una volta costruito il ponte sullo stretto, forse si può anche abolire questa città, pensa che risparmio…; vedi che il ponte è un investimento per la nazione? ma come mi torna in mente questo pensiero, io che sono stato sempre favorevole al ponte; il ponte come miraggio per risolvere d’un colpo tutti i problemi: di strade attese da sempre, di stazioni ferroviarie fuori posto da mettere finalmente a posto, di mari senza lungomari, di turismo senza alberghi e senza turisti…). Già, se nemici c’erano avrebbero potuto dire soltanto: che ci frega di Messina? Nemici? Una volta…, quando questo era un luogo ricco e intelligente, evoluto e aperto, colto e commerciale, allora sì era da prendere in considerazione. Perché attaccare una città che non sa nemmeno chi è e perché c’è? A chi può importare? E non importava a nessuno. Il saccheggio era avvenuto prima, negli anni Settanta, tutto in casa (come i bombardamenti della fortezza a stella sulla falce…), quando una “cupola” politica aveva deciso tutto per tutti, nel proprio interesse; altro che il Caf dei governi nazionali (e pure era sempre meglio di adesso, quella era gente intelligente e colta e otteneva “rispetto”, in qualsiasi maniera si voglia intendere questa parola… e dopo non era rimasto più nulla da spartire). Drago, gli altri ufficiali e i soldati avevano aspettato inutilmente i nemici che venivano da fuori, come quel quasi omonimo Drogo, raccontato da Dino Buzzati ne “Il deserto dei Tartari” (il paragone letterario l’ho vissuto come un incubo, perché è giusto, è giusto, è giusto; e quella fortezza Bastiani al confine del mitico regno dei Tartari diventato un non luogo è terribilmente simile a Messina, con la sua fortezza Boccetta; avevo finito col leggere e rileggere le pagine di quel romanzo, che sembrava far scorrere la mia biografia; e quel finale così tristemente inutile, più ancora della vita, mi sembra la mia ultima inevitabile condanna). Un destino di vana attesa, turbato dallo scirocco e mitigato dal gusto del pescestocco (che cosa c’entrava un pesce scandinavo a far da principe della tavola in quest’estremo lembo di Europa? perché nessuno se ne meravigliava?) e delle granite con panna e brioscia (non occorre chiederla: la brioscia è il naturale prolungamento della granita). Il nemico, il grande nemico, però c’era ma era inutile aspettare che arrivasse: era lì, anche questa volta, in città – nel centro come nella periferia – da sempre. E quella mattina, anzi, era appena l’alba, si era manifestato. Quei torrenti sepolti vivi, quelle colline - scarnificate erose bruciate - d’improvviso avevano deciso di vendicarsi, di riappropriarsi del loro territorio, della loro identità. La pioggia, tanta pioggia come forse non s’era mai vista. Un fiume di pioggia, un mare di pioggia, un oceano di pioggia in un punto del mondo che invece è stretto per definizione. Dove si poteva mettere tutta quell’acqua? L’ormai anziano maggiore Drago nel suo letto di malato aveva pensato alla catarsi delle sue amate tragedie greche, si era illuso per un momento di una purificazione che potesse cancellare anche la sua vecchiaia. Ma – lo capì presto – se era purificazione, stavolta era purificazione totale, di quelle che cancellano tutto per consentire poi una scrittura completamente nuova. Le colline scivolavano lentamente, quasi gioiosamente, come se alfine fosse stato liberato un loro acuto desiderio, prendevano un inesorabile declivio; in altre zone più alte precipitavano fragorose a dichiarare la loro imponenza anche adesso che da montagne si stavano trasformando in frane. I torrenti (spinti dalle frane? o lo avrebbero fatto autonomamente? e anch’essi non vedevano l’ora di farlo, vero?) scoperchiavano le loro tombe di cemento e invadevano tutto d’acqua e di fango. Montagne, colline e torrenti inghiottivano, indifferenti (o forse orgogliosi) uomini e cose, tutto e tutti. L’allarme nella fortezza Boccetta aveva coinvolto l’intera guarnigione, anche Drago provò ad alzarsi, malfermo sulle gambe e deciso nelle intenzioni (ma dove sto andando?). Se questo era il nemico, pur se lo capiva solo adesso, la sfida che aspettava da sempre, lui voleva esserci a combattere. Si affacciò, vide il palazzo della cultura (con i suoi specchi-parete sembrava interrogarsi: devo sparire prima che una persona, una sola persona, mi abbia abitato? tanti decenni per costruirmi e un attimo per essere distrutto?), udiva il rumore della natura che sovrastava le grida di uomini e donne, resi infimi dalla grandiosità del fenomeno (ma si può ammirare il nemico? si può perché rende meno pesante la resa). Si portò a fatica verso il colonnello Letterio - per gli amici Lillo, naturalmente - Simoni e provò, come poteva, a mettersi sull’attenti per dichiararsi pronto a combattere. Ah, Drago – fece quello – sei pronto? Stiamo evacuando bambini, donne e vecchi. Forza ragazzi, portatelo via subito! E indicò il maggiore.
Dal mare Drago vedeva la città sbriciolarsi e diventare lentamente un nulla indistinto (ma prima cos’era? un nulla distinto?). D’un tratto, oltre il ricordo della monotonia di giornate tutte eguali, ripensò in modo angosciante a quell’avvertimento dato dalla natura il lontano 1. ottobre 2009, quando aveva fatto in una piccola zona – fra Giampilieri e Scaletta Zanclea – quel che ora stava replicando in grande. Ricordava Drago, neppure lui (allora ero da poco tornato da Milano, dai dodici anni trascorsi in un’altra guarnigione) aveva capito bene la provocazione, ancora benevola rispetto al disastro che aveva davanti (o forse peggio: avevo capito e avevo fatto poco o nulla per stimolare una reazione nei miei concittadini, anch’io colto dalla maledizione del non fare e del non far fare). Ma una cosa gli era stata chiara davvero bene: della città di Messina non importava nulla a nessuno in Italia (e ai messinesi di Contemplazione importava di quelli di Giampilieri? e così via, altro che prendersela sempre con Palermo o con Roma). Era stato come se nell’ancora più lontano 1908 si fosse esaurito il bonus di beneficenza aiuti comprensione solidarietà benevolenza. Magari era giusto così. E quindi? Quindi basta. In quel momento i messinesi avrebbero dovuto rendersi conto che lo stato assistenzialista non c’era più (almeno per loro) e che era venuta l’ora di rimboccarsi le maniche in proprio. Era stata l’occasione per ridiventare una città vera, povera ma autentica, con tutti (non esageriamo, non proprio tutti…) i cittadini protesi alla gioia della vita, come era già capitato, per esempio, negli anni Cinquanta del Novecento, dopo la guerra. Invece, anche quella volta Messina era rimasta ad aspettare inutilmente gli altri. Come non arrivarono i nemici, non giunsero neppure gli amici. E solo Dio sapeva cosa sarebbe stato in futuro quel ponte dei miracoli, che volevano costruire (certo non lo facevano per Messina, ma gli abitanti dello Stretto avrebbero potuto giocarsi uniti quella possibilità… sembrava che il pensiero solidale fosse stato estirpato dal nostro dna). Drago si sollevò sulla lettiga e sapeva che era l’ultima volta in cui l’avrebbe potuto fare. Col suo binocolo (come fa a pesare così tanto un binocolo?) vide il campanile del duomo piegarsi e poi cadere tra mille spruzzi di calcinacci. Provò un immenso dolore della ragione, che in un attimo divenne del corpo, il dolore finale della sua morte. Lanciando l’ultimo sguardo prima di ricadere sulla lettiga, vide che il mare calmo stava diventando un tutt’uno con la città abbattuta, un’unica superficie, pensò che l’uomo era riuscito a ricominciare anche dopo il diluvio universale. Il fenomeno era stato cataclisma e purificazione insieme, anche se lui – evacuato - ne era stato escluso (e chi può dirlo davvero? magari fra poco rinasco e sarò tra i rifondatori di Messina…). Intanto doveva andarsene. Era il 4 febbraio 2044. |
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Vincenzo Bonaventura è nato a Messina qualche tempo fa, editore raffinato. È stato per moltissimi anni responsabile di Cultura e Spettacoli del quotidiano Gazzetta del Sud di Messina,
per il quale continua a scrivere.
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racconto donato dall'autore al Museo del Fango
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